San Sebastiano diviene protettore contro la “morte nera”, affiancato, in questo compito, da altri due santi, sant’ Antonio Abate e san Rocco, che spesso compaiono negli affreschi quattrocenteschi della nostra provincia e in tutte le zone d’Italia e d’Europa dove passò l’epidemia. Tanto che possiamo con certezza affermare che dove compaiono i tre santi o uno di loro, lì ci fu un’epidemia di peste. La peste imperversò per secoli a partire forse proprio da quella di Roma del 680, provocando decimazione della popolazione, miseria e carestia. Nella nostra mente sono sempre presenti quella micidiale del 1348, che diede spunto a Boccaccio per il suo “Decameron” e quella del 1629 narrata dal Manzoni. Ma i focolai erano endemici e anche di ristretta portata, anche se sempre devastanti. Le cure erano inesistenti, la morte quasi sempre sicura. Nei registri parrocchiali di quelle epoche afflitte da piaghe naturali e sociali si legge: ”L’epidemia infestò la casa e non l’abbandonò finché non ebbe falcidiato tutti”. O anche: ”La pestilenza li uccise l’uno dopo l’altro finché la casa non rimase vuota e disabitata”. La “morte nera”, secondo alcune stime, fece in Europa venticinque milioni di vittime, un quarto circa dell’intera popolazione. Stiamo parlando dell’epidemia del 1300, ma come potè verificarsi una catastrofe di simili proporzioni? Proveniente dall’India, la pestilenza aveva raggiunto nel 1347 la foce del Don e le rive del Mare d’Azov. Da Caffa, la maggior base commerciale genovese in Crimea, venne importata in occidente. A quell’epoca non si poteva immaginare che il male si propagasse nei porti e nelle città attraverso le pulci dei ratti appestati che erano saliti a bordo delle navi mercantili. Nel 1348 tutta l’Italia settentrionale era colpita dal morbo. La peste incominciò a mostrare i suoi effetti nefasti già nella primavera dell’anno 1348. Ce ne parla Boccaccio: “E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue dal naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno.(…) S’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse.(…) A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto(…): non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano.(…) Si facevano per gli cimiteri delle chiese, poiché ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravvegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricopriano infino a tanto che della fossa al sommo si pervenia”. Gabriele de Mussis, giureconsulto di Piacenza, descrive la situazione in toni non meno drammatici: ”Il malato giaceva nella sua abitazione solo con il suo tormento. Nessun parente osava avvicinarglisi, nessun medico osava varcare la soglia del suo domicilio; perfino il prete amministrò i sacramenti con gran terrore. Con suppliche strazianti i bambini invocavano i genitori, padri e madri i loro figli e le loro figlie, un coniuge l’aiuto dell’altro – invano!”. Il morbo si presentava sotto duplice forma: la peste polmonare, caratterizzata da espettorato ematico e alito fetido, che portava alla morte nel giro di pochi giorni – spesso di qualche ora; e la peste bubbonica che si manifestava con una dolorosa tumefazione suppurativa delle ghiandole linfatiche ascellari e inguinali e si concludeva di solito con la morte in meno di una settimana. Dall’Italia settentrionale la peste si propagò, all’inizio del 1348, in Francia; in giugno infieriva a Parigi, raggiungendo poi Londra nell’ottobre dello stesso anno. Nell’ottobre del 1348 la facoltà di medicina dell’università di Parigi si riunì per stabilire quali fossero le origini della peste, le sue conseguenze e le possibili misure terapeutiche. La prima causa dell’epidemia veniva ravvisata in una costellazione macrocosmica, e precisamente nella nefasta congiunzione di Saturno, Giove e Marte, che allora si trovavano nel segno dell’Acquario. Inoltre, come “causae particulares et propinquae”, la perizia di Parigi adduceva l’acqua guasta e la cattiva alimentazione. Regnava anche la convinzione che il morbo si trasmettesse per contagio immediato (interessante ricordare che anche per l’epidemia nel milanese di tre secoli dopo, il Manzoni riporta gli stessi convincimenti!). Ma che cosa si poteva fare contro la “morte nera”? E quali misure si prendevano in campo medico? Tanto nei luoghi pubblici quanto nelle abitazioni private bisogna bruciare incenso e camomilla; non bisogna mangiare né pollame né carne troppo grassa; il sonno non deve essere protratto oltre l’alba(!); per la prima colazione bisogna bere poco; è pericoloso uscire nelle ore notturne; occorre evitare eccessiva astinenza, emozioni e ubriachezza; la diarrea è un sintomo sospetto, fare il bagno è pericoloso; i rapporti con le donne sono letali. È inoltre documentata, alla fine del XIV secolo, l’esistenza di precise norme per il medico che dovesse visitare un paziente malato di peste. Bisognava farsi consegnare l’ampolla dell’urina avvolta in un panno di lino, affinché non esalasse alcun vapore. All’occorrenza si doveva esaminare l’urina in strada, e non nella camera del malato; lo stesso dicasi per le feci. Soprattutto bisognava evitare qualsiasi contatto diretto col paziente. Casa e suppellettili dovevano essere suffumicate e bisognava arieggiare spesso. Bisognava inoltre portare addosso pietre preziose, soprattutto “Hyacinthes” (zircone di colore giallo-arancio) e smeraldi. È lecito dubitare dell’efficacia delle norme allora in voga contro la peste. Un manoscritto parigino della fine del XV secolo riporta, per esempio, un testo dei Paesi Bassi che, oltre a numerose prescrizioni di salassi, dà la seguente ricetta: ”Prendete fichi, ruta e noci in parti uguali; sminuzzate dapprima ogni singolo ingrediente nel mortaio,poi pestateli insieme, sempre nel mortaio; prendete un poco di questo rimedio a stomaco vuoto ogni giorno prima di uscire di casa. Questo è un antidoto contro il veleno chiamato bubboni, vaiolo o pestilenza”. Già Ildegarda di Bingen, nella “Fisica”, aveva prescritto ricette a base di piante medicinali: ”Nel caso della peste con bubboni neri, che si conclude con una morte dolorosa, basta somministrare foglie e radici dell’ “erba Aaron” (il bel fiore della calla) per procurare una fine tranquilla” – ricetta, questa, da intendersi tuttavia più come sedativo. Sicuramente più efficaci erano le misure profilattiche che non ci si stancava di ripetere: moderazione tanto nel bere e mangiare quanto nell’amore, evitare di sostare in assembramenti di persone, accendere spesso un fuoco in camera propria e cambiare sovente aria e vestiti. Occorre inoltre strofinarsi spesso la pelle con aceto di vino o acqua di rose o fiutare ambra da un pomo odorifero fattosi preparare in farmacia. Anche la nostra “acqua di Colonia” era originariamente un rimedio contro la peste. Nei limiti del possibile era meglio evitare ira, insoddisfazione e tristezza del cuore, e mantenersi allegri e non eccessivamente angustiati. “Innanzitutto occorre comunque riconciliarsi con Dio; perché chi è in pace con Dio teme molto meno la peste”. Ovunque si costruirono appositi ospizi per appestati; fra questi, si ricordino quelli aperti nel 1403 a Venezia, nel 1464 a Pisa, nel 1467 a Genova e nel 1479 a Firenze; e la grandiosa immagine del lazzaretto di Milano del 1630 di manzoniana memoria. Particolarmente efficace si rivelò tuttavia la quarantena, termine derivato da “quarantana”, che indicava un isolamento di quaranta giorni. Alla quarantena dei porti corrispondeva, all’interno, un analogo sbarramento della città, il cosiddetto “cordone della peste”. Esemplare è il caso della Repubblica di Venezia, dove nel 1485 il doge Marco Barbarigo istituì un “magistrato della sanità”. Case infestate vennero arieggiate, suffumicate con zolfo e imbiancate a calce. Letti e suppellettili dovevano essere disinfettati e messi al sole per giorni interi. Materassi e abiti sporchi dovevano essere bruciati. Le merci erano sottoposte a un controllo speciale. Pur non sapendo in che modo si trasmettesse il contagio si procedeva come se fra il malato e il mondo esterno esistesse una catena d’infezione. Sorsero appositi ospedali per gli appestati e le città escogitarono misure di ampia portata per risanare i centri abitati abbandonati. Furono le grandi epidemie, dunque, a promuovere la collaborazione tra medici, autorità e centri terapeutici. La peste influì non poco sull’intera evoluzione storica e culturale dell’occidente. La grande moria comportò la decadenza dei vincoli sociali e morali fino ad allora vigenti. Psicosi epidemiche si manifestarono sotto forma di processioni collettive di flagellanti e nella messa al rogo di migliaia di ebrei, incolpati di aver provocato la peste con l’avvelenamento dei pozzi. Le inquisizioni e le cacce alle streghe scaturirono da una società alterata, posta in una situazione limite.