Il Piemonte era in Fiamme, tutta l’Europa era in fiamme in quell’anno 1706, per la guerra di successone spagnola che, cominciata nel 1701, si protrasse sostanzialmente fino al 1712, per concludersi con la pace di Utrecth del 1713.

L’anno 1706 fu l’anno cruciale per il Piemonte. 

In questa guerra il duca Vittorio Amedeo II di Savoia si attenne rigorosamente alle linee semplici ed elementari dei suoi avi, tipiche di quella casata: la preoccupazione di mantenere l’integrità territoriale dei suoi domini e l’abilità nel fiutare la parte vincente che avrebbe potuto consentire un ampliamento territoriale. I “bocconi” che da anni attraevano l’attenzione del duca erano sostanzialmente due: la parte del Monferrato ancora in possesso del Ducato di Mantova e i residui feudi imperiali sulle Langhe. Ma, alla pace di Utrecht la sagacità del duca sarebbe stata premiata in maniera cospicua: non soltanto il Monferrato e le Alte Langhe, ma la Sicilia (poi scambiata con la Sardegna) e l’ambitissimo titolo di re. 

Pertanto, dopo un iniziale avvicinamento alla Francia, naturale alleato del duca Amedeo II di Savoia si rivelò l’Impero Asburgico. A questo punto il re di Francia Luigi XIV, noto come il Re Sole, non gradì il repentino “voltafaccia”, un autentico tradimento, e ordinò l’occupazione del Piemonte. 

Nella primavera del 1706 l’esercito francese giunse ad assediare Torino per 117 giorni, praticamente per quattro mesi, e a un certo punto la resa sembra imminente. La città di Torino fu sottoposta durissimi bombardamenti: una bomba sfondò la porta del duomo esplodendo nella navata con il ferimento di un bambino e di una donna. Il generale francese La Fenillade, al comando di 30.000 soldati, era convinto che avrebbe cantato il “Te Deum” in quello stesso duomo il 25 agosto: festa di San Luigi, re di Francia. 

L’8 giugno il generale riservò un trattamento di favore al duca sabaudo trincerato in Torino: lo informò che avrebbe sottoposto la città ad un intenso bombardamento e, pertanto, era disposto ad offrire dei salvacondotti alla sua famiglia affinché si mettesse al riparo lasciando la capitale.

Per la verità da tempo il duca Vittorio Amedeo II aveva imbastito cordiali rapporti di buon vicinato con la neutrale Repubblica di Genova, qualora gli eventi bellici avessero preso una brutta piega e il 16 giugno, otto giorni dopo l’offerta del generale francese, la famiglia del duca lasciò in tutta fretta Torino sotto la guida della madre del duca, Maria Giovanna contessa di Namour, che portava con sé i gioielli della Corona e gli oggetti più preziosi custoditi a Tarino, tra cui la Santa Sindone. 

Con lei viaggiavano la duchessa Anna di Francia, moglie di Vittorio Amedeo II, con i figli, l’ambasciatore d’Inghilterra a Torino, nazione alleata del Piemonte contro la Francia, e il principe Filiberto Emanuele di Carignano, che all’epoca aveva 78 anni. Pare che il duca avesse disdegnato il “trattamento di favore” del generale francese, considerato un tranello per catturare la sua famiglia e tenerla in ostaggio. Lui stesso il giorno dopo lasciò Torino, ormai considerata persa e di nascosto, con i suoi migliori cavalieri, cercò di raggiungere il principe Eugenio, suo cugino, che con tappe forzate stava risalendo la Val Padana al comando di un’armata austriaca, che si sarebbe rivelata determinante a settembre per la vittoria.

In tutta fretta il corteo ducale con la Santa Sindone attraversò il Piemonte Meridionale, dove gli andò incontro il reggimento di cavalleria la “Croce Bianca” e lo scortò fino alle porte di Cherasco, città prediletta dai duchi di Savoia, in quei giorni saldamente presidiata dal reggimento “Santa Giulia”. Qui la corte ducale trovò ospitalità nel palazzo dei marchesi Guerra e la Santa Sindone fu esposte al pubblico “pour la veneration du pouple” nel palazzo Salmatoris: era contenuta in una grande cassa in bronzo dorato, ricoperta da velluti cremisi, abbellita da ori cesellati, esposta tra quattro torce ardenti. Le cronache riferiscono che tutto il popolo accorse a vederla, anche dai paesi vicini, Bra incluso. In seguito, durante l’estate, il pittore Sebastiano Taricco affrescò nel palazzo Salmatoris questo evento memorabile, nella magnifica “saletta del silenzio” con simbologie alquanto esoteriche, giusto in tempo per accogliere nuovamente la Santa Sindone nel mese di ottobre, durante il viaggio di ritorno verso la città di Torino, ormai liberata dall’assedio francese. 

Il 23 giugno la comitiva ducale riprese il viaggio da Cherasco dirigendosi verso la Liguria e raggiunse Mondovì, dove la Santa Sindone fu portata nel rione di Piazza per essere ospitata nel vescovado, accolta dal vescovo Giovanni Battista Isnardi del Castello. Nella cattedrale un affresco rievoca questo evento.

Il 25 giugno il corteo ducale con la Santa Sindone si trasferì a Ceva, dove fu ospitato dal marchese Carlo Emanuele Pallavicino. 

Questa triangolazione Cherasco – Mondovì – Ceva attesta come non fosse del tutto chiaro il percorso da seguire. E, infatti, a Ceva insorsero seri problemi: il programma, appena abbozzato, prevedeva che la famiglia ducale raggiungesse Albenga per imbarcarsi alla volta di Genova; ma all’epoca il vicino marchesato di Finale era un possesso spagnolo, e gli Spagnoli era alleati dei Francesi nella guerra in corso. Peraltro gli Spagnoli controllavano Calizzano e la strada che da Carcare arrivava ad Alessandria e a Milano: una via di comunicazione importantissima,  che gli Spagnoli cercavano di tenere aperta a tutti i costi per la sua importanza strategica, determinante per il collegamento della Lombardia con il mare, da dove arrivavano truppe e rifornimenti dalla Spagna e dal Regno di Napoli, dominio del re di Spagna. Per questo motivo, essendo inimmaginabile raggiungere Savona o addirittura Genova via terra, poiché si dovevano attraversare territori nemici, si era optato per il porto di Albenga.

Nella notte del 25 giugno l’ambasciatore inglese, il principe di Carignano e il marchese Pallavicino tennero un angosciato consiglio nel castello di Ceva e decisero di tenersi il più lontano possibile dal Finalese e dagli Spagnoli. In base a questa semplice ma importante considerazione modificarono il programma di viaggio: sarebbero andati ad imbarcarsi ad Oneglia, che all’epoca costituiva un’enclave piemontese sul mare.

Il resoconto della peregrinazione della Santa Sindone a questo punto è succinto: il giorno dopo, 26 giugno, il corteo ducale lasciò Ceva di buon mattino, passò per Garessio e arrivò ad Ormea un’ora dopo la mezzanotte trovando ospitalità nella casa dell’ingegner Bologna. Un viaggio lunghissimo. Ho appurato che era di sabato e che quella notte c’era la luna piena.

Tutto lascia supporre, ipotesi avvalorata dagli affreschi della Santa Sindone tuttora presenti a Pamparato, che si evitò di transitare per Bagnasco, paese troppo esposto, poiché vicino a Massimino e soprattutto a Murialdo, dove si era insediato un avamposto spagnolo incombente sulla Val Tanaro. Si privilegiò probabilmente il percorso più lungo della Val Mongia, Pamparato e l’antico monastero di Casotto. Gli stessi tempi di percorrenza, 15 – 16 ore, considerate anche soste intermedie, propendono per questa ipotesi.

Il giorno dopo, 27 giugno, domenica, la carovana ducale con la Santa Sindone raggiunse Pieve di Teco, territorio neutrale della Repubblica di Genova. 

Vi sostò, ma non si fermò, procedendo fino a Caravonica allo scopo di portarsi più lontano possibile dal Finalese e dagli Spagnoli. A Caravonica arrivò in tarda serata e gli augusti ospiti trovarono alloggio nella dimora del signor Tomatis.

La cronaca  riferisce che il viaggio da Ceva a Caravonica fu così duro e disagevole che la famiglia ducale si attardò in quel paese per ben quattro giorni, allo scopo di riposarsi e ritemprarsi dalle fatiche del viaggio e dalle angustie patite. 

Il 2 luglio, ad Oneglia, il corteo ducale fu accolto dalla popolazione in festa, al suono delle campane e con salve di artiglieria. 

Soltanto il 16 luglio, dopo un mese esatto dalla partenza da Torino, tre “galere” presero il mare fattosi sicuro e propizio alla navigazione, poiché nei giorni precedenti era inquieto. Il viaggio per mare verso Genova fece tappa a Savona…  

Al ritorno, dopo che l’assedio di Torino fu spezzato dal principe Eugenio di Savoia il 7 settembre, la Santa Sindone riprese il mare con la famiglia ducale, ancora una volta con Albenga per meta, per poi proseguire via terra in direzione di Torino. 

Ci fu la solita sosta a Savona, dove fu allestita una lauta cena con cinquanta capponi, cento piccioni, ventiquattro galli d’India e buon vino. Ma era destino che la Santa Sindone ad Albenga non arrivasse mai! 

Il giorno dopo, infatti, il mare si era ingrossato e il corteo ducale, ora accompagnato dal conte Verrua Giacinto Scaglia e dal marchese di Couventaux, salì al Colle di Cadibona e raggiunse Saliceto: il più importante borgo sabaudo in Alta Val Bormida. Era il 2 di ottobre, e a Saliceto la Santa Sindone fu ospitata con la famiglia ducale nel castello del marchese Giuseppe Antonio Del Carretto (casata di Zuccarello). 

Il giorno dopo proseguì per Cherasco, dove sostò il 3, 4, 5 ottobre…

A Saliceto, sulla facciata della chiesa di Sant’Agostino, retrostante la parrocchiale di San Lorenzo, fu affrescata una grande Sindone in ricordo di quella sosta: dipinto purtroppo andato perduto. Ma a Pamparato, invece, gli affreschi si sono mantenuti! 

 

Fonte principale: “resoconto delle peregrinazioni della Santa Sindone durante l’assedio di Torino del 1706”, di Maria Delfina Fusina, pubblicato nel Bollettino Studi Storici della Provincia di Cuneo, anno 1972, n. 67.